Nu quart e luna

Nu quart e luna

Testo e Regia di Sandro Dionisio

Nu quart’e Luna è probabilmente il primo esperimento di creazione drammaturgica applicato ad un laboratorio teatrale in ambito carcerario. La Pièce è stata elaborata dai detenuti del carcere di pena attenuata di Lauro nell’ambito del laboratorio “ Dalla fabula alla favola”, tenuto da Sandro Dionisio, e ripercorre con una voce collettiva, ispirata alla sobrietà e al rigore dei grandi maestri del teatro italiano del Novecento, la parabola che è propria di ogni esperienza carceraria: un attraversamento dolente, ma anche vitale, di quella “fatica di vivere” che ogni cella contiene in trattenute grida, e che nel testo de Levocididentro trova il coraggio di dire il suo nome.

La scena è spoglia, ma  piena dei corpi e dei colori della lingua delle otto voci che si mettono in scena all’unisono, muovendosi con sapienza entro un continuum linguistico che va dal napoletano più corporeo fino all’italiano quasi aulico con cui l’anima rivela la propria voce.

Unico diaframma ed elemento scenico sarà un accesso magico al mondo delle voci di dentro, un “gate” luminoso attraverso il quale gli attori conquisteranno la scena. L’elemento scenografico sta anche a simboleggiare il passaggio dal sé antico alla nuova consapevolezza conquistata attraverso l’esperienza carceraria e comporrà sulla scena quel quarto di luna evocato dal canto finale liberatorio de Levocididentro.

L’esperienza pedagogico artistica vissuta con i detenuti del carcere di Lauro ha avuto nel mio vissuto, come in quella dei partecipanti ricadute molteplici e non sempre previste. Al primo incontro con i miei allievi, quando ho proposto loro di scrivere loro stessi il testo dell’ evento teatrale cui li avrei preparati, mi hanno risposto scettici, “prufessò, nije stamme appiccicati ca penna”  Ridacchiavano, mi pesavano, mi credevano in loro pugno. Ho risposto,  dicendo loro che si poteva scrivere anche solo raccontando, suggerendo  esercizi di scrittura meccanica e di libera fabulazione che li hanno immediatamente divertiti e sono divenuti un momento privilegiato del nostro stare assieme. Si scoprivano in coro, si sperimentavano con la generosità del loro bisogno di essere ascoltati.  Si affidavano al mio gioco con la libertà dei bambini e  le angosce dei malati,  “irresistibile bellezza della malattia”, direbbe Moravia   Dopo solo un mese, sul nostro tappeto i detenuti portavano piccoli scritti vergati in fretta, con poesie che si vergognavano, ma pure  desideravano ardentemente  leggere in pubblico, il lavoro si è radicato in loro attraverso gli esercizi di improvvisazione di stampo teatrale e pian piano quei fogli scarni, sono diventati pagine e pagine vergate con scrittura minuta ed incandescente temperatura umana e sentimentale, in alcuni casi con inattesa qualità letteraria. Tutto mi parlava di un bisogno, davvero urgente di raccontarsi e di capirsi, a volte anche di perdonarsi. Li avevo presi nel mio gioco. Tra defezioni improvvise ,a volte brusche e momenti di sovraffollamento, il laboratorio metteva a nudo talenti, o  fragilità, e  inadeguatezze umane. L’universo che popolava il tappeto luogo dei nostri incontri diventava sempre più coinvolgente e solidale. Con esercizi bioenergetici e massaggi  rubati allo shiatsu come alla  terapia biodinamica, entravo  nel loro universo di sofferenza e li portavo ad un ascolto rilassato e rilassante dei loro bisogni e dei loro sogni.  Prufessò, oggi nun tengo genio sto tutto incartato, mi dicevano entrando svogliati e stanchi e mi chiedevano di intervenire sui  corpi doloranti con digitopressioni e  consueti esercizi di rilassamento muscolare.Poi il corpo, libero dall’oppressione del dolore, si predisponeva alla creazione. Allora si cantava, si  discuteva,  finalmente si recitava. Abbiam dato un nome al gruppo e nomi di finzione ad ogni personaggio. Pian piano i fogli componevano un mosaico ed era possibile tirare un impercettibile filo rosso, la traccia di un racconto possibile. L’ho fatto. Ogni incontro con i ragazzi era per me un viaggio estenuante  tra, digiuni  forzati,  due metro  un interminabile  viaggio in autobus e umanità desolata, eppure dopo ogni giornata di incontro, distrutto a casa mia, mi ritrovavo contento e   appagato dai miei sforzi professionali. Capivo per la prima volta, forse, nella sua terribile potenzialità, il potere  catartico del gesto teatrale. Così mi diveniva facile trasferirne l’urgenza a creature provate dalla sofferenza, dalla distanza dagli affetti come da tante altre mancanze più triviali.  Solo dopo che  ho portato i ragazzi nella sala computer del carcere e li ho convinti a scrivere il testo da loro immaginato, gli incontri sono divenuti un rito   meno gravoso, soprattutto per loro, presi dai mille impegni coatti della detenzione.    Alcuni in  momenti di grazia regalavano al gruppo un piccolo scritto, un monologo che diveniva perno dell’azione teatrale  per poi sparire  nella lontananza delle loro angosce e paure o semplicemente, nella distrazione di altri impegni più urgenti o solo  nuovi.  Giungeva,  infine, finalmente, per loro  inaspettato, dopo la fatica della scrittura, il divertimento del gioco teatrale. La caduta delle inibizioni e la compattezza del gruppo, facilitava il mio intervento nelle loro vite. Levocididentro erano ornai una sola voce, i partecipanti  superavano la piccola rivalità personale e imparavano a donarsi al compagno per libera scelta e non solo per costrizione ambientale. Era giunto il momento di assegnare i ruoli. A lungo ho esitato, nel timore di escludere qualcuno o di privilegiare il più dotato o il più vicino a me per empatia o carattere. La mia indecisione li smarriva e li perdeva il laboratorio al quarto mese di durata, acquistava partecipanti e perdeva smalto. Ho imposto la memoria del testo ormai codificato ed un piccolo miracolo si è verificato. Le esperienze personali, lancinanti, uscite fuori nelle improvvisazioni o nelle meditazioni solitarie in cella, diventavano  testo teatrale, il dolore privato diveniva documento pubblico e collettivo di  cui essere a  turno orgogliosi o gelosi.

La sofferenza, comunque in questo modo si smussava veniva esorcizzata.  I detenuti  capivano la responsabilità di raccontare il loro universo e la loro esperienza al mondo esterno, ci  credevano, adesso!La consapevolezza collettiva aumentava e mi sorprendeva ad ogni incontro di più. Brillavano intelligenze fino ad allora sopite, sapienze non confessate,  voglia di esserci e spirito di corpo. L’energia e il bisogno di alcuni, soprattutto spingeva il gruppo a seguirli per imitazione, su quelle vitalità messe in campo generosamente,  Alfano, , Orefice, Solimeno, Morford, puntavo e contavo. Nei momenti di tensione  e di stanchezza, venivo difeso da alcuni come un patrimonio collettivo , o come un figlio o un padre da difendere, gioia limpidissima della condivisione. Il rito del caffè, veniva inserito nel testo, e   con esso la figura a me ignota del liberante: ci avvicinavamo al finale del testo per approssimazioni progressive e improvvise virate.  Potere del gesto e della voce. Si iniziava ad emettere suoni  o canti assieme al doppio respiro, diaframmatico e toracico con cui introducevo le  sedute di scrittura per rilassarli e rendere i loro corpi, canali vuoti di comunicazione con i loro sogni. Ora che bisognava emettere voce e testo, il respiro tornava, in una assemblea organizzativa in carcere cui ho assistito per caso, e dove sono intervenuto, ho scoperto il loro sguardo attento su di me, il compiacimento per il modo corretto in cui emettevo i suoni e le parole.  Aliperti veniva scarcerato e la fabula da noi raccontata si incarnava per l’ennesima festa della liberazione, mentre cresceva l’ansia per il ruolo e per la uscita e, per quanto mi riguardava del debutto. Un tormentone fastidioso che iniziava a guastare gli incontri. Abbiamo reagito alla pressione col lavoro fisico, individuato i movimenti in scena, imposto una disciplina più rigorosa nello stare assieme e nel convocarci.  Lentamente alcune personalità si affermavano e regalavano al gruppo motivazione e talento. Ho portato in carcere professionisti dello spettacolo per  un primo  confronto col giudizio esterno. Ho coinvolto collaboratori artistici che sono immediatamente stai accolti dal gruppo come una risorsa ed un arricchimento e ne sono stati essi stessi affascinati. Vedo chiaramente la forza dello spettacolo,  ancora senza scene e senza luci , faccio della sobrietà una cifra stilistica, e sono seguito senza tentennamenti da tutto il gruppo, orai stabilizzatosi sui dieci elementi. E’ il momento di dare respiro al progetto, aggiungo musiche, una  prima ipotesi di costumi e, infine il disegno luci cui i  ragazzi partecipano con passione e sforzo anche fisico. Per un giorno intero si mette sottosopra il piccolo teatro, e scoviamo nel retro fari abbandonati, ma funzionanti,  tiriamo cavi, fissiamo le luci sulle americane, decidiamo i punti luce, insegno ai ragazzi a sentirsi e stare nella luce,  ripetiamo con  crescente convinzione la piece, affascinati dal nostro stesso  gioco. Il racconto è una evocazione del crimine come fantasma, la scena costruita da Raffaele Russo è uno specchio magico che introduce al palco/ mondo della consapevolezza, dietro ci sono i rimpianti, le colpe, il mai detto ( se non in questo testo straordinario).’L’arte deve contenere un segreto che non và rivelato  ammoniva Antonio Neiwiller, nu quart e luna contiene un segreto sogno di felicità che queste creature  sfortunate hanno forse meritato e che và loro concesso.   Sono sogni semplici ed egoisti, come quelli dei bambini, ma sono incredibilmente  necessari sa tutti noi. Io Sono, molto stanco,  incredulo ed orgoglioso. Ripercorro il cammino fatto con  levocididentro come un viaggio in un universo di accoglienza e consapevolezza.  Faccio fatica a ricordare che tutto questo si è compiuto all’interno di un carcere.